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New Age Music: una trappola per le orecchie?

La New Age, movimento nato negli anni ‘70 del secolo scorso come variante più fruibile e quindi vendibile del misticismo orientale, ha un equivalente perfettamente coerente nel mondo della musica. Esattamente come nei contesti filosofici e letterari, tale fenomeno fa leva sulle tensioni spirituali che l’uomo non ha ancora messo a fuoco. Tipica di un certo modo di fare americano è stata, ed è purtroppo, la tendenza a creare con sagacia subculture indirizzate a catturare l’interesse delle masse, per trasformare in business cioè che affascina e da cui le persone sono inconsciamente attratte.

In realtà, come avviene per tante correnti genuine ed innovatrici, i primi compositori che in quel momento storico si sono interessati ad un approccio musicale mistico/spirituale erano ignari di quelli che sarebbero stati i discutibili sviluppi di tale movimento. Per fare un paragone con il mondo letterario, potremmo osservare l’imbarazzante differenza qualitativa a cui si è arrivati oggi tra la tanta fantasy-spazzatura che la fa da padrone e l’opera preziosa di J. R. R. Tolkien.

Ma torniamo alla musica: nel 1974 un giovane introverso e a suo modo ribelle di nome Mike Oldfield realizzava con spirito scevro da ogni manipolazione commerciale il suo terzo lavoro Ommadawn (di cui consiglio caldamente l’ascolto), senza bisogno di indossare tuniche bianche o portare al collo cristalli terapeutici, né sostenendo di aver seguito le indicazioni del proprio spirito guida. Semplicemente, un ragazzo dalla grande sensibilità e in lotta con i propri fantasmi come ogni persona normale, e non nascosto dietro fantomatiche illuminazioni interiori, si avvicina al cosmo nella maniera più reale possibile distillando la propria nuda realtà e solitudine. Cosa vuol dire dunque fare musica in sinergia con un cammino spirituale autentico? Certamente non vestirsi da santone e tranquillizzare i proseliti sul proprio risveglio spirituale, smanettare per un’oretta con un fascinoso sintetizzatore modulare e poi tornarsene a casa con le tasche piene di banconote.

Dobbiamo saper distinguere, in musica così come in ogni altra disciplina, l’autenticità dalla spettacolarità, come avrebbe detto Jiddu Krishnamurti.

C’è tantissima musica, di ogni tempo, potenzialmente in grado di riconnetterci con il nostro vero essere e dunque con il cosmo, senza per questo essere dichiaratamente concepita come manifesto di una Nuova Era.

Esiste un’enorme mole di produzioni mediocri edificate su cliché estetici tratti dall’immaginario iconografico degli indiani d’America, degli angeli o di extraterrestri filantropi in cui si utilizza, sul piano compositivo, il concetto tipicamente orientale del “togliere” come pretesto per fingere che la banalità sia semplicità.

Spesso lo stesso materiale apparentemente suggestivo fa da colonna sonora, senza voler generalizzare, a b-movie fantasy o sci-fi.



La trappola tesa al nostro orecchio, specie se inesperto, sta nella “magia” che sembra provenire da suoni fantascientifici e ritmi dal sapore etnico la cui pulsazione sorregge ipnoticamente melodie il più delle volte melense: tant’è che gran parte di tali produzioni ha finito per prendere la direzione del lounge/chill out (la musica strumentale spesso presente come sottofondo nei bar alla moda, per intenderci), a dimostrazione che la trance di cui sono in cerca le case discografiche è ben altra.

Al contrario, la vera semplicità, l’essenzialità meditativa che realmente contraddistingue un approccio mistico alla musica è assai più facile ravvisarle nell’autentica musica sacra (non è un caso che si chiami così!) sia occidentale che orientale, nelle tradizioni tribali o in quella branca dell’avanguardia fondata su improvvisazione minimale e ricerca sonora, che ha preso le distanze dai tecnicismi e dalla complessità fine a se stessa. Ed oggi, per fortuna, troviamo diversi giovani compositori elettronici che sono forse inconsapevole espressione di una nuova era della creazione, se così si può dire, molto più di chi non abbia già sostenuto di esserlo.

In conclusione, mi rivolgo a chi fosse desideroso di arricchire un cammino spirituale migliorando anche la propria cultura musicale: avviciniamoci al sacro percependo e riconoscendo ciò che è stato realizzato nell’identificazione piena del compositore con “ciò che è”: viviamo ad occhi chiusi il Requiem di Mozart, una messa di Ockeghem o la “possible music” di Brian Eno; immergiamoci nei mantra indiani, così come nel suono di ciò che ci circonda e che invece quasi sempre ignoriamo; esploriamo ciò che più ci attira, imparando a discernere una creazione frutto del profondo sentire umano dalla compilation easy listening del momento. In sostanza, ascoltiamo ciò che è autentico.

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